Per antonomasia.

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(Sembra una vita che non scrivo più e in effetti è vero. Mi sento come se avessi smesso di vivere per un po’.)

Sono diventata meravigliosamente brava a far finta di non sentire niente, a prendere tutto il mio dolore e ricacciarlo giù, in fondo all’anima, catalogandolo come qualcosa di poco importante, qualcosa che tanto prima o poi passerà.

Ieri sono andata a trovare una mia carissima amica. Si chiama Sara e ormai ha diciott’anni. Due anni in meno di meno. Quando vado a cercarla non guardo mai davanti a me; mi guardo i piedi, i piedi che affondano nella ghiaia, attraverso il piccolo vialetto e la raggiungo. Solo allora mi inginocchio e alzo lo sguardo. Non voglio vedere nient’altro se non lei, se non quei mille fiori che imperlano la pietra dura e levigata sopra cui è inciso il suo nome.

Sara è morta un anno fa, in un incidente. Io sono al cimitero, seduta per terra, a gambe incrociate, mentre le scrivo che mi manca sul retro del biglietto d’ingresso del Primastella. Sorrido pensando a quanto devo sembrarle buffa in questo momento.

Poi, come ogni volta, scoppio a piangere. Piango per tante cose. Per la mia Saretta, perché mi manca, perché era la persona più bella del mondo e mentre lei lasciava questo postaccio chiamato terra io ero a poche centinaia di metri, ridendo e bevendo birra. Piango, perché so che la mia è come una seconda possibilità, ma più vado avanti più sento di stare buttandola via, di sprecarla. Piango perché in questi momenti si piange sempre l’abbraccio di chi non si può avere.

Ed è proprio lì, davanti alla tomba della mia amata amica, è proprio lì che ho il coraggio di guardare a tutto il sudiciume che mi porto dentro. Le chiedo di proteggermi, di mandarmi delle scariche elettriche ogni volta che sto per fare una stronzata, finché non imparo cosa è male e cosa è bene, finché non ho la forza per scegliere il Bene e andarci fino in fondo.

Mentre mi alzo e inizio a dirigermi verso un’altra persona da andare a trovare, una signora incrocia il mio sguardo. Io sembro un panda con tutto quel trucco colato, lei sorride e si avvicina con gli occhi altrettanto consumati. Dice “era la tua sorellina? una tua amica?”. Faccio no e poi si con la testa. Non riesco a parlare; scoppio di nuovo a piangere perchè quando apro i rubinetti ci vuole parecchio per richiuderli. Lei mi fa una carezza e dice “è durissima, ma ci resta la fede, abbiamo la fede.” Annuisco e mentre me ne vado provo il forte desiderio di tornare indietro e chiederle un abbraccio.

Mi sento svuotata, incompleta.

Senza esserne più di tanto certa, cerco un’altra persona con cui devo assolutamente parlare. Appena lo trovo mi siedo di nuovo per terra ed inizio ad osservare meticolosamente la foto. Si assomigliano, nulla di più vero. Prego guardando di sottecchi intorno a me, sperando in una qualche manifestazione di quest’anima bella, sperando che mi senta mentre sussurro “quanto avrei voluto conoscerti.”

Quando mi alzo, vedo una sagoma che ciondolante viene verso di me. Ci fermiamo l’uno di fronte all’altra per una frazione di secondo. Chiudo gli occhi e mi lascio abbracciare forte, mi godo quel modo di voler bene così morbido, così caldo, quel suo vizio di avvolgermi con un braccio posare l’altra mano sulla mia testa. Matteo si china leggermente e dice “Ciao piccolina, sapevo che eri dal mio papà, ma ho preferito osservarvi da lontano e non disturbarvi.”.

Matteo: dal nome ebraico Matithya, composto da matag, ‘dono, regalo’, e da Yah, abbreviazione di yahweh, che significa ‘dono di Dio’.

 

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